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Ambiguità, limiti e poteri del linguaggio umano

Il linguaggio viene definito come quel sistema di simboli arbitrari che gli esseri umani usano per codificare e comunicare la loro esperienza del mondo e degli altri. È quella facoltà specifica e unica che distingue noi esseri umani da tutte le altre specie viventi, che permette tanto di comunicare quanto di ergere barriere alla comunicazione.

Secondo David Crystal, autore di The Cambridge Encyclopedia of Language, il numero di lingue parlate oggi giorno sul nostro pianeta va dai 4000 ai 10000. Tali stime però variano con il tempo in quanto nuove lingue vengono costantemente identificate mentre una parte di quelle vecchie scompare.

Possiamo dire quindi che il linguaggio è un fenomeno sfuggente.

Il linguaggio costituisce un fenomeno bioculturale. Ciò che lo rende biologicamente possibile è il cervello umano e l’anatomia della nostra bocca e della nostra gola. Ciò che invece lo rende un prodotto culturale è il fatto che viene condiviso da un gruppo di parlanti, codificato in simboli, modellato e storicamente trasmesso tramite l’insegnamento e l’apprendimento, così da permettere la comunicazione.

Perché la lingua è importante secondo gli antropologi?

In primis perché essa è uno strumento per comunicare sul campo. Gli antropologi si trovano spesso a svolgere ricerche sul campo tra persone che parlano lingue diverse da loro. In passato si trattava spesso di lingue non scritte che dovevano essere apprese senza un’istruzione formale come anche determinati tipi di scritture ieroglifiche o geroglifiche (maya, aztechi, egiziani).

In secondo luogo, costituisce un oggetto di studio specifico. Gli antropologi possono trascrivere o registrare le conversazioni, estrapolandole dal loro contesto culturale per poi analizzarle autonomamente. Le diverse complessità grammaticali messe in luce da questa analisi suggeriscono a molti antropologi che ciò che si dimostrava vero per la lingua lo fosse anche per altri aspetti della cultura.

Con la nascita della linguistica, ossia lo studio scientifico del linguaggio, molte scuole di teoria antropologica hanno iniziato a basare le proprie concettualizzazioni relative alla cultura su idee mutuate appunto dalla linguistica – la lingua modella la cultura e la cultura modella la lingua.

In terzo luogo, il linguaggio rivela molte cose sulla cultura. Questo è forse l’aspetto più importante, ossia che tutti si servono del linguaggio per codificare la propria esperienza, per strutturare la propria comprensione del mondo e di sé stessi e per interagire con gli altri. Quando impariamo una lingua di una data società apprendiamo qualcosa anche della cultura.

Linguaggio e cultura

Come il concetto di “cultura” si distingue in Cultura e culture, così anche quello di “linguaggio” ha la distinzione tra Linguaggio e linguaggi. Il Linguaggio con la L maiuscola come la Cultura con la C maiuscola è una proprietà astratta attribuibile alla specie umana nel suo complesso; da non confondere, invece, con gli specifici linguaggi propri di particolari gruppi umani.

Questa distinzione ha consentito di riconoscere che tutti i gruppi umani possedevano linguaggi pienamente sviluppati anziché forme di comunicazione vocale “primitive” o “imperfette”.

L’ambiguità del linguaggio umano

Il linguaggio inoltre deve essere distinto dalla lingua parlata e dalla comunicazione.

Quando usiamo il termine linguaggio pensiamo a quello parlato, ma la nostra lingua può essere comunicata anche per iscritto oppure utilizzando l’alfabeto Morse o il linguaggio dei segni (non vocali).

Possiamo definire linguaggio come comunicazione umana cioè il trasferimento di informazioni da persona a persona e che può aver luogo anche senza l’uso della parola, parlata o espressa.

Le persone comunicano costantemente tra di loro in maniera non verbale, inviando messaggi anche tramite i vestiti che indossano o il proprio modo di camminare.

Di fatto nemmeno la comunicazione linguistica dipende soltanto dalle parole. I parlanti nativi di una lingua non condividono solo vocabolario e grammatica, ma anche un certo numero di assunti relativi al modo in cui si parla che rimangono incomprensibili a chi è estraneo a quel linguaggio.

Coloro che studiano una nuova lingua si rendono presto conto che la semplice traduzione letterale di una lingua a un’altra non funziona. Talvolta, nell’altra lingua mancano determinati termini equivalenti e anche quando questi apparentemente esistono, svolgere una traduzione parola per parola nella lingua B, quella frase può non assumere lo stesso significato che aveva nella lingua A.

Lo studio di una seconda lingua, quindi, non è tanto una questione di apprendere nuove etichette per vecchi oggetti quanto di imparare a identificare nuovi oggetti associati a nuove etichette. Inoltre il contesto è importante, in quanto se si vuole ottenere una comprensione olistica del linguaggio il sistema linguistico deve ritornare a quel contesto culturale dal quale è stato estratto. Ad esempio in inglese una persona può sentirsi piena dopo aver mangiato pronunciando la frase “i’m full” (“sono pieno”), ma in francese sebbene la traduzione letterale sia “je suis plein” se pronunciato in un qualunque contesto significherebbe “sono un animale gravido”, se a pronunciarlo invece fosse un uomo che ha appena consumato molto vino, significherebbe “sono ubriaco”.

Parlare dell’esperienza

Il linguaggio, come altri aspetti della cultura, è il prodotto del tentativo dell’uomo di fare i conti con l’esperienza. Ogni lingua umana si adegua ai bisogni di coloro che la parlano in quanto i parlanti di una specifica lingua tendono ad arricchire il proprio vocabolario di termini che si riferiscono agli aspetti della loro vita quotidiana ai quali attribuiscono maggiore importanza. Ad esempio gli Aymara, che vivono sulle Ande nell’America meridionale, hanno inventato centinaia di parole per indicare le molteplici varietà di patate che coltivano, gli Anglofoni invece hanno creato un elaborato vocabolario per parlare di computer e tecnologie.

Ciò che però accumuna tutte le lingue naturali è che tutte hanno sempre dimostrato un’uguale complessità sebbene vi siano differenze di vocaboli e grammatica.

Come non esiste una cultura umana “primitiva” non esiste neppure un linguaggio umano “primitivo”.

Le lingue sono tradizionalmente associate a specifici gruppi di persone: le comunità linguistiche. Non tutti i componenti di queste comunità però possiedono un’identica conoscenza della lingua che condividono, né parlano tutti allo stesso modo. Individui e sottogruppi di una stessa comunità linguistica utilizzano in maniera diversa le risorse della lingua e tendono a utilizzarle per esprimersi in maniera unica e personale.

 Si può notare come vi sia una certa tensione nell’ambito di una lingua tra comunanza e diversità, in quanto gli sforzi dell’individuo ad assurgere a un’espressione unica e personale sono controbilanciati dalla pressione che porta a negoziare un codice comune per comunicare all’interno di un più vasto gruppo sociale.

Così una lingua viene prodotta e riprodotta attraverso l’attività di coloro che la parlano. Infatti qualsiasi lingua che noi siamo in grado di identificare in un dato momento non è che un’istantanea, un fermo immagine dentro un processo di costante cambiamento.

Cosa contraddistingue il linguaggio umano dalle altre forme di comunicazione animale?

Charles Hockett

Nel 1966, l’antropologo linguista Charles Hockett elencò 16 caratteristiche costitutive del linguaggio umano che lo distinguevano dalle altre forme di comunicazione animale. Sei di esse sembrano essere particolarmente utili per stabilire ciò che caratterizza a sua volta il linguaggio umano:

  • Apertura: si potrebbe definire come la “capacità di capire la stessa cosa da diversi punti di vista”. Il linguaggio umano è creativo e i parlanti di una qualsiasi lingua non sono solo in grado di creare nuovi messaggi all’interno di quella lingua, ma sono anche capaci di comprendere i nuovi messaggi creati dagli altri parlanti. Le stesse esperienze possono essere concepite, etichettate e discusse in modi diversi.
  • Distanziamento: si potrebbe definire come la capacità umana di parlare di oggetti assenti o inesistenti o di eventi passati o futuri.
  • Arbitrarietà: assenza di qualsiasi nesso obbligatorio tra suono e significato in quanto un aspetto della creatività linguistica è la libera produzione creativa di nuovi nessi tra suoni e significati.
  • Dualità di strutturazione: secondo Hockett il linguaggio umano si struttura su due diversi livelli, il suono e il significato. Al primo livello troviamo un ristretto insieme di suoni privi di significato (fonemi), al secondo livello invece la grammatica riunisce le unità di suono in base a un insieme di regole del tutto differenti, dove i raggruppamenti di suoni che ne risultano sono dotati di significato (morfemi).
  • Semanticità: l’associazione dei segnali linguistici con aspetti del mondo sociale, culturale e fisico di una comunità linguistica in quanto le persone si servono del linguaggio per riferirsi e dare senso agli oggetti e ai processi del mondo.
  • Prevaricazione: è una delle conseguenze più rilevanti dell’apertura, in quanto i messaggi linguistici possono essere falsi e anche privi di significato dal punto di vista logico; in altre parole, produzioni linguistiche che si presentano perfettamente corrette dal punto di vista grammaticale possono essere del tutto prive di senso dal punto di vista semantico.

Tutto questo dimostra come il linguaggio umano sia un sistema aperto a differenza di quello primato o animale che risulta essere un sistema cosiddetto chiuso.

Linguaggio e contesto

Gli antropologi sono del tutto consapevoli dell’influenza che esercita il contesto su ciò che le persone scelgono di dire.

L’antropologo Clifford Geertz condusse una ricerca su campo a Giava durante gli anni ‘50 e scoprì che era impossibile dire qualcosa in giavanese senza comunicare anche la propria posizione sociale in rapporto a quella della persona con cui si stava parlando in quanto variavano i dialetti in base al proprio status.

Ma la lingua influenza il nostro modo di vedere il mondo?

Edward Sapir e Benjamin L. Whorf

Due antropologi linguisti americani, durante la prima metà del ventesimo secolo, notarono che la grammatica di lingue diverse spesso descrive la medesima situazione in modi differenti. Edward Sapir e Benjamin Whorf ne furono colpiti a tal punto da suggerire che la lingua ha il potere di plasmare il modo in cui le persone vedono il mondo.  Tale affermazione è nota come principio del relativismo linguistico o ipotesi Sapir-Whorf. Questa ipotesi fu assai controversa in quanto di difficile verifica, vediamo infatti ora come alcuni risultati siano piuttosto ambigui.

La cosiddetta versione forte di questa ipotesi è nota come determinismo linguistico, ossia una visione totalizzante della lingua che riduce i modelli del pensiero e della cultura a quelli della grammatica e della lingua che si parla. Ad esempio, se una grammatica classifica i generi in maschile e femminile il determinismo linguistico ne deduce che i parlanti della lingua sono indotti a pensare a maschi e femmine come esseri radicalmente diversi.

Al contrario, una lingua che non stabilisce distinzioni grammaticali sulla base del genere presumibilmente abitua a chi la parla a considerare uguali maschi e femmine. Se il determinismo linguistico fosse corretto, ogni cambiamento grammaticale dovrebbe mutuare anche gli schemi del pensiero. Ma il determinismo linguistico solleva anche una serie di problemi:

  •  In primo luogo, ad esempio, esistono lingue come il fulfulde che utilizzano un unico pronome di terza persona per maschi e femmine, eppure è evidente che tra i parlanti del fulfulde vigono modelli sociali di dominanza maschile.
  • In secondo luogo, se la lingua determinasse in modo così rigido il pensiero, sarebbe impossibile tradurre da una lingua a un’altra o perfino apprendere una lingua dotata di struttura grammaticale diversa. Visto che gli esseri umani imparano le lingue straniere e fanno traduzioni da una lingua a all’altra la versione forte dell’ipotesi di Sapir-Whorf non può essere ritenuta valida.
  • In terzo luogo, se anche fosse possibile tracciare confini rigidi intorno a ciascuna comunità linguistica, ciascuna lingua offre ai propri parlanti nativi modalità alternative per descrivere il mondo.

A fronte di queste obiezioni altri ricercatori propongono una versione debole dell’ipotesi Sapir-Whorf, che rigetta il determinismo linguistico e tuttavia persiste nell’affermare che la lingua plasma il pensiero e la cultura. Anche se la questione sul genere grammaticale (“lei”, “lui”; “he”, “she”) non potrebbe determinare un ordine sociale a predominio maschile potrebbe però facilitarne l’accettazione poiché la distinzione grammaticale tra lei e lui farebbe apparire naturali ruoli di genere distinti e ineguali. Il fatto è che molti di questi parlanti nonostante la grammaticale distinzione di genere siano sostenitori attivi dell’uguaglianza fa ritenere che il potere condizionante della grammatica sia troppo debole per meritare attenzione sul piano scientifico.

In anni recenti si è risvegliato un interesse nei confronti della questione “whorfiana”, il punto di vista di Whorf, aspramente criticato, si basa sul suo tentativo di vedere la grammatica come modello linguistico che dà forma alla cultura e al pensiero. Alla fine gli studiosi hanno riconosciuto che esistono modi differenti di interrogarsi sulle relazioni tra linguaggio e pensiero.

Una nuova prospettiva stimolante deriva dall’ipotesi di Dan Slobinpensare per parlare”, la quale suggerisce che l’influenza delle forme linguistiche sul pensiero potrebbe essere massima quando le persone si accingono a parlare ad altri su un argomento specifico in un contesto specifico. Pensare per parlare significa cogliere quelle caratteristiche che in primis permettono una qualche concettualizzazione dell’evento e in secondo sono prontamente codificabili nella lingua. Slobin precisa che i parlanti coinvolti nel “pensare per scrivere” e “pensare per tradurre” devono affrontare sfide molto simili. Il “pensare per tradurre” è particolarmente intrigante quando i traduttori devono trasmettere delle caratteristiche codificate grammaticalmente in una lingua ma non lo sono nell’altra, o viceversa.

Secondo Dedre Gerner e Susan Goldin-Meadow alcuni ricercatori mantengono ancora una tradizione di approccio Whorfiano e considerano il linguaggio come una lente attraverso cui le persone vedono il mondo.

Altri, invece, considerano il linguaggio come una cassetta degli attrezzi, un insieme di risorse di cui i parlanti si servono per costruire strutture concettuali più elaborate.

Altri ancora vedono il linguaggio un generatore di categorie, che influenza il modo in cui le persone classificano le esperienze e gli oggetti nel mondo.

In generale, la linea di ricerca che ha prodotto le prove più convincenti circa l’influenza del linguaggio sul pensiero e sulla cultura è emersa dall’ipotesi del linguaggio come una cassetta degli attrezzi, ovvero come un insieme di risorse di cui i parlanti fanno uso per i loro propositi concettuali o comunicativi.

PIDGIN: quando si mescolano 2 o più lingue

Quando membri di due comunità con tradizione linguistica radicalmente diversa si trovano faccia a faccia sono costretti a comunicare.

Non si può prevedere gli effetti che un tale contatto possa comportare a entrambe le comunità, tuttavia da queste nuove esperienze condivise possono sorgere e svilupparsi nuove forme di linguaggio: pidgin.

Lo studioso della lingua pidgin studia in pratica una forma di negoziazione radicale di un nuovo significato, negoziazione avvenuta tra 2 comunità per far fronte al blocco comunicativi posto fra di essi.

Si produce da questo incontro un linguaggio nuovo, con nuovi significati, diverso da tutte le lingue che gli hanno dato origine e non riducibile a nessuna di esse.

Frasi in Pidgin Nigeriano

Il contesto dalla quale la lingua pidgin ha origine è quello della conquista coloniale e della dominazione commerciale.

 Il vocabolario si mutua di solito in quello del gruppo dominante, ma la sintassi e la fonologia possono somigliare invece alle lingue subordinate, cosa che ne facilita l’apprendimento. I morfemi di solito, che distinguono il genere, il numero dei nomi o i tempi dei verbi tendono a scomparire.

Queste lingue sono prive di parlanti nativi. Esempi di pidgin sono il chinglish, un misto fra cinese e inglese, il fanagalo in Africa meridionale o il pidgin basco-islandese

Molto diverso è il nome che prende una lingua PIDGIN una volta tramandata dai suoi parlanti a una nuova generazione, la definizione che ne danno i linguisti è: lingua creola

La creolizzazione della lingua pidgin comporta una maggiore complessità a livello di fonologia, morfologia, sintassi, semantica e pragmatica, al punto che il pidgin finisce per somigliare a una lingua convenzionale. Queste particolari forme di linguaggio comunicativo sono state ritrovate nel Pacifico: il giamaicano, il creolo haitiano, il papiamento, parlato in alcune isole caraibiche, il tok pisin, diffuso in Papua Nuova Guinea, e la lingua krio, basata sull’inglese e parlata in Sierra Leone.

Cosa succede quando muore una lingua?

Nel corso del XXI secolo molti linguisti e antropologi sono entrati a far parte di progetti volti a rivitalizzare lingue usate da un esiguo numero di parlanti nativi.

Queste lingue corrono il rischio di scomparire, man mano che i soggetti più giovani di quella comunità linguistica smettono di usarle o, meglio, non la imparano mai.

Le comunità interessate alla rivitalizzazione di una lingua spaziano da coloro che parlano l’irlandese nel Regno Unito a coloro che parlano la lingua Kiowa nell’Oklahoma, fino a coloro che utilizzano i linguaggi indigeni dei segni in Australia.

Le minacce a carico di queste lingue sono la diffusione di lingue “mondiali” come l’inglese e la marginalizzazione di un dialetto a favore di un altro parlato in località vicine.

Gli antropologi linguisti hanno prestato maggiore attenzione alle lingue indigene parlate da piccole comunità che hanno sperimentato una storia di colonizzazione a opera di stranieri e che costituiscono una minoranza contro le lingue coloniali dominatrici.

La situazione delle lingue indigene è piuttosto varia.

In Guatemala ad esempio la maggioranza della popolazione parla le lingue Maya, tutte strettamente imparentate tra loro, per cui è possibile affrontare in modo più unitario il problema della rivitalizzazione della lingua Maya. Attualmente essi usano la loro lingua nella scuola, impegnati a portare avanti iniziative per ottenere il riconoscimento ufficiale delle loro lingue.

Talvolta può accadere che le pratiche etnolinguistiche dei parlanti interferiscano con la conservazione della loro lingua. Per esempio, tra i parlanti dell’Ilgar dell’Australia settentrionale è vietata la conversazione tra fratelli di sesso opposto. Ciò significa che un uomo può trovarsi a parlare la sua lingua madre con persone che non la conoscono e a non parlarla con chi la conosce.

Come la colonizzazione e il dominio commerciale hanno imposto le loro lingue a popoli indigeni, ma questo fenomeno esiste già da molto prima, infatti con la diffusione del latino molti dialetti sono venuti a scomparire, provocando l’estinzione di forse 50 o 60 lingue che si parlavano nell’area mediterranea prima del 100 a. C. e d’altra parte l’espansione del latino in Europa portò la nascita delle lingue romanze.

CONCLUSIONE

La popolazione per comunicare usa un linguaggio, che come abbiamo visto può sia essere parlato e no ( come i gesti o linguagggio dei segni). La maggior parte della popolazione usa la lingua parlata e su di essa sono state poste regole per avvicinare questa il più possibile a un linguaggio comune, dato che ogni individuo cerca di raccontare la propria esperienza nel modo più personale possibile. In questo modo ogni contesto e ogni specializzazione ha i propri termini, scientifici o naturali che siano.

Se la comprensione che abbiamo della realtà è il prodotto della dialettica tra l’esperienza e il linguaggio ( meglio ancora cultura), l’ambiguità non verrà mai rimossa da alcun sistema simbolico inventato dagli umani. La coscienza riflessiva rende gli uomini consapevoli di avere delle alternative e l’esperienza del dubbio, del non essere certi in cui si crede, non è mai del tutto alle nostre spalle.

Per quanto riusciamo ad apprendere una lingua, non saremo mai capaci di esaurirne i significati o di delimitarne le regole una volta per tutte. Il linguaggio umano è un sistema aperto, e fino a quando andrà avanti la storia degli uomini, si creeranno nuove forme di linguaggio.

Il contatto ha sempre creato dinamicità. Noi esseri umani siamo dinamici. Entriamo in contatto sempre con nuove forme di vita, nuovi stili, nuovi linguaggi, nuove tecnologie, nuove comunicazioni che a loro volta anche creano in noi o nelle comunità una via per il cambiamento.

A sua volta queste forme che regalano dinamicità sono esse stesse dinamiche. Non possiamo avere la presunzione di etichettare e schematizzare ogni cosa, come per il linguaggio. Certo in un breve periodo di tempo si possono svolgere analisi, studi, ma che nel giro di qualche anno i risultati ottenuti possono cadere nel cestino in quanto il cambiamento è sempre dietro l’angolo, dietro ogni incontro, ogni sviluppo, ogni compromesso, dentro l’uomo.


Autrice: Greta Pigliacampo, tirocinante presso la nostra Associazione, studentessa di Antropologia all’Università di Bologna

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  • Arrival, di Denis Villeneuve
  • Figli di un dio minore, di Randa Haines
  • Spanglish – Quando in famiglia sono in troppi a parlare, di James L. Brooks
  • The Interpreter, di Sydney Pollack
  • The Social Network, di David Fincher
  • Il discorso del re, di Tom Hooper
  • The Terminal, di Steven Spielberg
  • Lost in Translation, di Sofia Coppola
  • The dancer, di Frederic Garson

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